martedì 17 maggio 2016
giovedì 5 maggio 2016
PARTNERSHIP AL PROGETTO
AGERE FABULAM, LABORATORIO TEATRALE ED ARTI SCENICHE
INTERVISTA A GIANMARCO TOGNAZZI
http://www.gianmarcotognazzi.com/
‘’Tognazza Amata’’, Velletri
29 aprile 2016
MARCO GIORGI
(MG): allora eccomi qui con Gianmarco
Tognazzi, siamo nella Tognazza Amata, sede di Velletri della tua …
GIANMARCO
TOGNAZZI (GT): … azienda e
associazione culturale. In realtà qui adesso c’è l’associazione culturale;
abbiamo fatto dei discorsi molto culturali, abbiamo discusso un progetto
fenomenale che deve soltanto trovare dei piccoli accorgimenti ma è un ottimo
progetto tanto per cominciare, lo dico subito Marco, perché mi sembra molto
interessante.
M.G.: allora Gianmarco, tu sei un grande attore di
cinema, teatro, televisione. Come è nata la passione per la recitazione?
G.T.: be’, se cresci in una famiglia cosi, le cose sono
due: o lo ami o lo odi questo mestiere perché senti solo parlare di quello, hai
solo gente intorno che ha fatto questo mestiere; poi ho avuto la fortuna di
avere un padre che accentrava le sue amicizie intorno una tavola per parlare di
lavoro, quindi alla fine si stava insieme giocando e divertendosi in maniera
conviviale ma alla fine il lavoro era alla base di tutte le serate. Quindi
quando sei accerchiato hai due reazioni, l’amore o l’odio ed è una cosa che
ambiscono e che sognano di fare tutti e diventa molto difficile che la parte
che ti scatti sia quella del rifiuto, quindi viene fuori in maniera naturale,
c’è involontariamente uno spirito di emulazione, hai un riferimento in famiglia
molto importante, in qualche modo quando sei ragazzino non hai la percezione
della difficoltà che sarà fare questo mestiere, soprattutto i tempi che sono
cambiati, però inevitabilmente in famiglia abbiamo deciso in un modo o in un
altro di avventurarci in questo lavoro con grande passione, con grande
difficoltà, perché poi ci sono dei vantaggi inizialmente ma anche una serie di
difficoltà.
M.G.: a proposito di ruoli, c’è un ruolo, un genere che
ti piace interpretare di più, magari a cui ti senti più affine?
G.T.: no, in realtà no, nel senso che mi piace fare,
l’ambizione che ho è quella di cambiare più possibile. Come non amo portare me
stesso in scena per come sono, per come abbiamo discusso il progetto. Io non
voglio necessariamente la trasformazione, credo di essere a servizio del
personaggio che faccio, non il personaggio al mio servizio perché credo che
quel potere di avere un carisma, cosi importante da poter imporre la tua
personalità sopra il tuo personaggio, ce l’abbiano veramente in pochissimi nel
mondo e poi perche penso realmente che l’attore sia a servizio del regista e a
servizio del suo personaggio; il divertente sta andare a cercare qualcosa che è
distante da te, vivere una realtà diversa o provare ad avvicinarti con la tua
critica che puoi fare attraverso un personaggio; il fatto di riproporre
ossessivamente me stesso, fare l’attore scendi letto come dico io, di quelli
che si truccano, dicono le battute e poi si cambiano solo il vestito, a me non diverte.
Poi che sia drammatico, comico, il film di Natale piuttosto che lo spettacolo
impegnato dell’autore famoso piuttosto che dell’esordiente, da protagonista a
me non interessa. Mi diverte l’idea di poter variare. Se non me lo fanno fare
all’interno delle discipline, cinema, teatro, televisione, singolarmente in
queste, cerco di variare facendo un po’ dell’uno un po’ dell’altro e vedendo di
condizionare tra le mie scelte le opportunità che mi danno, magari a teatro
faccio una cosa comica, se mi capita un film più serio vado a equilibrare cosi
con il cinema o la fiction. È diventata una battaglia.
M.G.: per la tua carriera ti sei ispirato a un attore
in particolare?
G.T.: no, nel senso che sicuramente l’ultimo dei pensieri
è cercare di pensare come l’avrebbe fatto mio padre perché lo troverei poco
rispettoso nei suoi confronti e poco intelligente da parte mia perché vorrebbe
dire che hai uno spirito di emulazione che non è quello da cui ti parte la
suggestione di fare un mestiere ma proprio che non hai una personalità da poter
creare qualcosa di tuo, quindi ti devi adeguare ad assonanze o a imitare. L’attore
non è imitare qualcuno, poi lo spunto ti può venire dall’ammirazione che hai.
Tantissimi attori che sono anche completamente differenti da te, ma non c’è uno
a cui mi ispiro: io mi faccio spesso trascinare istintivamente dall’analisi che
ho fatto del personaggio e dove mi porta la prima scena, in genere la prima
scena è quella che mi suggerisce come dovrò fare il personaggio.
M.G.: mentre dal tempo degli esordi ad oggi, è cambiato
qualcosa nell’ambito del cinema, teatro? Poi se è cambiato qualcosa, cosa è
cambiato?
G.T.: è cambiato tutto, è completamente diverso da quello
che era ai tempi di mio padre, cosi come lo è stato negli anni Ottanta, negli anni
Novanta, negli anni Duemila. La tecnologia è avanzata ma a causa della crisi si
è passati da un’industria a un artigianato, perché il lavoro si è ridotto, e
nonostante la cultura sia la maggior risorsa del patrimonio che abbiamo, la
politica non riesce a sostenerla intraprendendo percorsi seri che abbraccino
ogni tipo di disciplina ad essa legata che vanno dalla progettualità di un
teatro o alle scenografie o al trucco, alle macchine da presa e quindi che si
prenda cura delle maestranze perché non fare industria ma tornare
all’artigianato non ha tolto lavoro solo agli artisti ma soprattutto agli
operai specializzati e questa è follia pura. A causa di ciò nei nostri settori,
cinema, teatro e televisione, la crisi è stata ancora più acuta perché il gran
numero di persone che pensavano di arrivare ad una ‘’industria’’ del settore si
sono ritrovate a lavorare poco e in maniera artigianale, quindi è cambiato il panorama.
M.G.: quindi questo cambiamento come è vissuto nel tuo
ambito?
G.T.: purtroppo non con la lotta del cambiamento o di frenare
certe degenerazioni del passato ma con, se vuoi, la fatalità degli eventi che
si sono creati e che forse con un po’ di rassegnazione al sistema, al paese,
alla gestione … nel senso che quando poi vedi le tue incapacità di fare gruppo,
collettività per fare le cose e vedi poca rispondenza da parte delle istituzioni
o comunque non nella misura in cui sarebbero utili a cambiare sostanzialmente
le cose, allora è chiaro che è molto complessa.
M.G.: i giovani che si addentrano in questo mondo, sono
aumentati o diminuiti rispetto agli anni passati?
G.T.: da una parte sono aumentati, perché c’è stato un
momento fenomenologico sbagliato, anche quello dove, pensando di dire fai un
reality, diventi un artista o è il veicolo per diventare famoso … perché in
Italia purtroppo è più importante se sei famoso per qualsiasi motivo che per
quello che sai fare. Questa è una altra realtà ed e permesso farlo a tutti perché tanti che fanno
i piloti, i piloti che fanno i registi, i registi che fanno i politici, i
politici che fanno i pittori, tutti fanno tutti e io sono all’antica e penso
che ognuno debba fare il suo e cercare di farlo al meglio; il problema non è se
lo fai perché ci possono essere eccezioni, il problema è che lo dai come
riferimento ai giovani, pensano che non ci debba essere specializzazione, che
non ci debba essere un approfondimento, una dedizione a qualcosa di specifico e
questo ha portato a dire lo possiamo fare tutti, perché in qualche modo il
reality negli anni Duemila e la comunicazione, i social e la visibilità: una
volta i ragazzi vedevano una telecamera e avevano paura di parlare ora corrono
davanti a una telecamera o addirittura si riprendono da soli. Si è ribaltato,
non c’è più quell’ imbarazzo di chi voleva ambire a fare un mestiere che aveva
bisogno di una costruzione e chi si improvvisava a farlo, questa cosa ha
portato tanta gente, tanti ragazzi ad avere un’aspirazione di diventare, di
fare, ma allo stesso tempo la riduzione del mercato ha messo molti altri che
avevano iniziato questo processo di fronte all’idea che non era cosi semplice
come gli era stata prospettata; alla fine le opportunità sono molto basate
sulle circostanze un po’ anche sulla casualità, sulla fortuna e anche sulla
capacità pero molti si sono disillusi, hanno capito che era complesso pensare
di ragionare cosi semplicisticamente come gli era stato fatto intuire qualche
tempo fa.
M.G.: a questi giovani che vogliono intraprendere una
carriera come tua, che consigli daresti?
G.T.: i consigli sono difficili da dare, perché dico che
sei hai la passione di farlo, devi mettere in conto a cosa vai incontro, quali
sono le difficoltà, che la meritocrazia è un discorso astratto nel nostro paese
e non solo nel mestiere artistico, comunque non consiglierei di farlo come
mestiere su cui basare la propria economia familiare perché non ci sono presupposti
nella normalità, nella continuità, non c’è una metodica per la quale un certo
numero di ragazzi che vogliono fare questo mestiere arriveranno a poterlo fare
con continuità, sarà tutto molto a spot, parziale, quindi come fai a basare
l’idea di fare quel mestiere se non puoi avere la continuità? Magari fai due
film e poi più niente, quindi devi farlo con passione, puntarci se ci credi, ma
sapere che sarà una strada di grande sacrificio, molto più di quello che era
una volta, perché c’è molto meno lavoro e io consiglio comunque di avere un
piano B, o meglio, prima avere prima il piano B, poi portare avanti questa
cosa. Non è per disilludere o scoraggiare chi vuole iniziare, pero’ il dato di
fatto oggettivo è questo: siamo settantamila e se ne lavorano fissi
tre-quattrocento sono tanti, ma tanti.
Anche perché c’è questo meccanismo per cui chi è nuovo è una coincidenza
astratta e una variabile, e a chi ha una continuità, il mercato chiede una
visibilità di chi già è. Certo che ci vogliono le nuove leve e ci saranno
fortunatamente ma è molto più settorializzata di una volta dove c’erano più
opportunità e più possibilità, più causalità di creare una carriera. È un
discorso estremamente complesso per potere essere veramente indicativo su cosa
consigliare. Io consiglio tanto studio, sapere quale è stato il passato del
mestiere che vuoi andare ad affrontare, quale è stata la storia del cinema
italiano, la storia del teatro italiano e non solo. Magari anche quello
europeo, francese, inglese ed americano perché se non hai la cognizione di
quello che sei stato come paese, come cultura, ma non solo nel recente passato,
forse andando a studiare quello proprio che l’ha reso un industria questo
mestiere, se non hai la cognizione non puoi valutare, come dire non puoi avere
un gusto musicale senza aver mai sentito i Beatles. È difficile. Se non sai chi
sono i Beatles capisco che oggi fai, o vent’anni fa facevi i salti mortali per
i Take That; se avessi sentito i Beatles, avresti avuto un giudizio un minimo
morigerato nei confronti di fenomeni che erano fenomeni ma un conto è essere,
come dire, quelli che hanno cambiato la storia della musica leggera, però se
non hai cognizione di quello, se non sai chi erano Pasolini, Rossellini,
Visconti, De Sica, per dirne alcuni, cosi come negli attori, come fai ad
affrontare solo avendo gli ultimi riferimenti degli ultimi dieci, quindici anni?
Con tutto il rispetto, bisogna conoscere, avere questa passione, curiosità di
conoscere, di vedere il più possibile per chi ha questa passione, diventa una
roba ingestibile quasi, è tipo crisi di astinenza, chi è cosi, va, vede, si
informa, capisce che lo studio non è mai arrivato al punto di arrivo, c’è
sempre un livello superiore, un approfondimento superiore, in un panorama che
forse pero’ poi ti scoraggia nelle opportunità in tutto quello che è il tuo
amore, rischi di sentirti un po’ come tradito da questo mestiere, più passione
hai più quello che non ti gira intorno ti potrebbe creare frustrazione.
M.G.: nei vari teatri che hai frequentato, quale è
stato quello in cui ti sei sentito più a tuo agio, per l’acustica, per gli
spazi?
G.T.: è molto difficile perché ho avuto la fortuna di
girare tutti i teatri d’Italia, da quelli storici a quelli moderni e
inevitabilmente, un po’ come sempre, più vai indietro, più le cose erano fatte
bene, mi dispiace dirlo ma è cosi perche è chiaro che un teatro all’ italiana
ha un acustica che non può avere un teatro moderno, studiato nei minimi
particolari al livello acustico e tecnologico ma non per cattiveria, perchè
quel tipo di conformazione era studiato proprio in assenza di tecnologia e
quindi doveva portare il massimo in maniera diretta. Oggi se il cinquanta per
cento degli spettacoli li fanno con i radio microfoni, a che serve l’acustica?,
mettiamo dei buoni radio microfoni. Questo è un po’ un paradosso, per cui ti
posso dire che è chiaro che avere avuto la fortuna di recitare come al
Ponchielli di Cremona, per fare un esempio, che è un teatro meraviglioso, come
i teatri di Lucca, il Bonci di Cesena, ma ne ho fatti talmente tanti perché
sono venti anni di tournée. Ho recitato anche in posti dove pioveva sul palco.
Il teatro si fa in spazi diametralmente opposti: passi dal Ponchielli alla
latrina, dove non solo non hai il camerino, non hai le luci; il teatro è su
vari registi all’interno dello stesso scenario perché quando fai lo ‘’scavalca
montagna’’, magari non la prima stagione, la seconda o la terza, capiti anche
in posti che non ha spazi fisici: io mi
ricordo ho fatto uno spettacolo in un palco che era tre metri per tre e
praticamente noi attori non stavamo contemporaneamente in scena, fisicamente
non riuscivamo a muoverci, eravamo una fotografia, quindi è diventato un
improvvisazione quello spettacolo che aveva fatto duecento repliche con delle
varianti ma li c’erano pezzi di scenografia, era un’improvvisazione
totale. Uno in particolare non te lo so
dire perché sono troppi però nella mia mente ci sono dei teatri meravigliosi
all’italiana, mi viene in mente il teatro di Carpi; paradossalmente nelle città
di provincia c’è ancora un mantenimento di certe strutture antiche, sono
meravigliose; in città purtroppo no, sorvolando sul Sistina piuttosto che
l’Argentino o l’Eliseo, per parlare di tre strutture completamente diverse nella città: moderno,
quasi antico, storico antico, o il teatro della Scala di Milano che fa un altro
genere di spettacoli dove io non ho messo piede in quanto solo attore. Pero c’è
la predilezione per teatri all’italiana.
M.G.: quindi un laboratorio teatrale che si rispetti
che requisiti dovrebbe avere?
G.T.: sono due cose diverse, come ti dicevo prima, in
funzione al progetto: il laboratorio teatrale è una cosa e ha delle
caratteristiche che non sono le stesse di cui necessita un teatro, che sia
all’italiana o moderno. Perché i corsi di recitazione o laboratori si fanno in
spazi dove quando tu hai una pedana a mo’ di palco, di una cinquantina di
centimetri rialzata da terra, in uno spazio, un ambiente largo dove si può,
levando le sedie, fare esercizi a seconda del tipo di laboratorio che fai: se
fai il metodo Strasberg che prevede anche il rilassamento, c’è bisogno di uno
spazio completamente vuoto dove agire in libertà quindi può essere anche una
palestra che ha una pedana e un palco, non c’è qualcosa di specifico. Certo se
tu hai la parvenza di una sorta di piccolo sipario, perché se devi creare una
scena o mettere in piedi se vuoi un saggio, puoi dare quell’atmosfera delle
americane o piantane che ti mettono in condizione di fare un minimo di
suggestione, di illuminazione con dei tagli e quindi una pedana con delle
quinte, quando hai quello e uno spogliatoio dove organizzarsi, spesso l’ho
fatto io a teatro, in una grande camerata in cui ognuno aveva il suo angolo
dove truccarsi e vestirsi, è più che sufficiente per fare un laboratorio
teatrale, anche perché molto nel laboratorio teatrale lo deve mettere la
fantasia dell’attore nel portare con il personaggio e con lo studio di quello
che vai a fare, di proporre il personaggio anche per come decidi di arrivare
vestito. Per esempio quando facevo io i corsi con Beatrice Bracco, avevamo un
posto ampio, scarno, pulito ma poi tutto quello che andavamo a costruire, lo
andavamo a cercare noi, è un modo di avvicinarsi al personaggio, di ricreare con
gli ambienti di scena, che non vuol dire avere necessariamente delle
scenografie: facevi una scena in cucina, io mi portavo le pentole per allestire
il mio angolo cucina che volevo fosse la suggestione che avevano i miei compagni
che guardavano quella scena: magari con il metodo di Beatrice Bracco o altri
insegnanti si lavora sui sensoriali per cui tutto c’è tranne gli oggetti, gli
oggetti devono essere visti dai tuoi colleghi e compagni di lavoro perche tu li
ricrei e sembra che ci siano pur non essendoci, dipende da che metodo di lavoro
stai utilizzando, puoi avere tutto o il vuoto cosmico in un laboratorio
teatrale, qualche sedia, una pedana, più è a mo’ di teatro, meglio è, te lo
dice uno che ha cominciato dal teatro Argo che sono quaranta posti ed era una
stanza 4x5, il palco, una stanza con le mura, non le scenografie quindi eri in
una situazione veramente di teatro da camera; se parti da li , quando ti
allarghi, puoi solo gioire. Più difficile partire quando hai uno spettacolo a
disposizione e andare nel luogo dove in assenza di tutto, dove ti senti a
contatto con il pubblico a un metro, diverso che recitare a 5- 6 metri dal
pubblico.
M.G.: quindi se ti venisse proposto un progetto del
genere, un laboratorio teatrale in cui si insegna tutto ciò che riguarda l’arte
del recitare o quello che riguarda il make-up, la costumistica, saresti
disposto a finanziarlo, sponsorizzarlo?
G.T.: a finanziarlo volentieri, se avessi i soldi lo
finanzierei molto volentieri, a collaborarci si, a dare un consiglio e a partecipare
effettivamente alla progettualità di una cosa l’ho sempre fatto, anzi sono
sempre stato il primo ad adeguarmi ai teatri, a criticare quali erano degli
errori di valutazione fatti nella progettualità perché io vengo dall’istituto
d’arte dove facevo arredamento quindi qualche cosa ci capisco; fare esperienza
sul luogo ti fa capire i difetti e li vedi perché hai vissuto i luoghi in base
alle esigenze che avevi prima di andare in scena quindi io sarei molto ben
disposto, è chiaro che un tipo di progetto del genere è un ambizione e deve
prevedere una serie di valutazioni, le valutazioni legate al corso di make-up,
perché sul teatro possono essere importanti perché, a differenza del cinema, a
teatro ti devi truccare da solo, non hai il truccatore che ti segue, il teatro
non lo prevede; poi devi avere una conoscenza di cosa significa tecnicamente il
discorso delle luci, degli spazi dell’adattarsi allo spazio scenico in base a
quello che puoi avere o no. E’ chiaro che se hai una struttura che ti da queste
cognizione e questa formazione, il lavoro dell’attore diventa più semplice e
più facile ma non toglie che tu avrai delle sorprese andando in giro e ti ci
dovrai adattare ma è chiaro che questo è un progetto che mette insieme una
serie di cose che possono essere molto utili a chi lo fa e anche a chi va li,
come per esempio come docente ad insegnare, perché diventa una struttura
polivalente che forma, insegna, una
struttura recettiva che ospita chi viene da fuori che crea intrattenimento a
livello interno e esterno attraverso il progetto che mi hai fatto vedere, ci
sono da valutare una serie di cose, di accorgimenti che si hanno in funzione di
non fare l’errore di fare una cosa progettualmente molto bella ma che rischia
di avere limiti organizzativi, ecco perche è importate cosa si prefigge il
progetto e diventa fondamentale se è una struttura che viene utilizzata solo da
chi va a studiare la dentro o deve diventare una struttura che lavora mettendo
in piedi degli spettacoli di cui fruisce un pubblico che viene da fuori, perche
anche la situazione legata del bar piuttosto che del ristorante che ha quella
struttura li, dipende dal tipo di progetto che fai, in base a quello devi farti
una serie di domande, anche in relazione alla zona in cui hai deciso di
applicare il progetto, se hai spazio o no, devi capire se è sostenibile o se il
progetto deve prevedere qualcosa altro.
Grazie a Gianmarco Tognazzi per la disponibilità e la gentile
collaborazione.
Marco Giorgi
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